10. Distruzione di Cartagine decisa a Roma.
La questione giuridica tra Cartagine e Massinissa rimase quindi indefinita; ma l'invio della commissione determinò un'importante decisione.
Il capo di questa commissione era stato il vecchio Marco Catone, l'uomo forse allora più influente del senato, e, come veterano della guerra annibalica, pieno ancora d'odio per i Cartaginesi e della paura ch'essi avevano destato.
Con sorpresa non disgiunta da invidia videro i suoi stessi occhi il fiorente stato dei nemici giurati di Roma: lussureggianti le campagne, affollate le vie, smisurate le quantità d'armi negli arsenali, ricco il materiale marinaresco; e nella sua mente egli già vedeva un secondo Annibale rivolgere tutte queste forze contro Roma.
Nel suo onesto, coraggioso, sebbene limitato giudizio, giunse alla conseguenza che Roma non si sarebbe potuta dir sicura finchè Cartagine non fosse scomparsa dalla terra, e, ritornato in patria, manifestò subito questa sua opinione al senato.
Qui gli uomini di più larghe vedute, appartenenti all'aristocrazia, e particolarmente Scipione Nasica, si opposero con gran forza a questa meschina politica, dimostrando irrisorie le preoccupazioni a causa d'una città mercantile, i cui abitanti di razza punica sempre più andavano desistendo dalle arti della guerra e dal pensiero di essa, e l'assoluta compatibilità dell'esistenza di questa ricca città commerciale colla supremazia politica di Roma. E persino la trasformazione di Cartagine in una città provinciale romana sarebbe stata a loro giudizio effettuabile, anzi, considerata l'attuale condizione de' Fenici, ritenevano sarebbe forse da questi stessi accolta con favore.
Catone però non voleva già la sottomissione ma la distruzione dell'odiosa città. La sua politica, come pare, trovò partigiani in parte tra gli uomini politici inclinati a ridurre le province oltremarine sotto la immediata dipendenza di Roma, e in parte nella potente influenza dei banchieri e dei grossi speculatori romani, i quali, distrutta quella città danarosa e commerciale, dovevano esserne gli eredi.
La maggioranza decise di riprendere alla prima plausibile occasione la guerra con Cartagine, o, per dir meglio, la distruzione di questa città, e unicamente per rispetto alla pubblica opinione si trattenne dal metter subito le mani alle armi.
Ma la desiderata occasione non si fece lungamente aspettare. Le irritanti violazioni del diritto internazionale da parte di Massinissa e da quella dei Romani, fecero salire al potere i capi del partito patriottico di Cartagine, Asdrubale e Cartalo. Quel partito, sull'esempio dell'acheo, veramente non pensava ad opporsi alla supremazia romana, ma era almeno risoluto a difendere – se occorreva, anche con le armi – i diritti, che a tenore dei trattati i Cartaginesi vantavano contro Massinissa.
I patrioti giunti al potere fecero bandire dalla città quaranta dei più calorosi partigiani di Massinissa, e ottennero dal popolo il giuramento di non concedere loro mai più il ritorno a qualsiasi condizione. Nello stesso tempo essi formarono un forte esercito composto di liberi Numidi sotto il comando di Arcobarzane, nipote di Siface (verso il 600 = 154), per difendersi dagli attacchi di Massinissa.
Questi era però abbastanza prudente per non ricorrere allora alla forza delle armi, rimettendosi invece, nella contesa pel possesso del territorio sulle sponde del Bagrada, senza riserva al verdetto arbitrale dei Romani, in modo da potersi sostenere da questi, con qualche apparenza di ragione, che gli armamenti dei Cartaginesi dovessero essere diretti contro Roma, ed insistere quindi sull'immediato scioglimento dell'esercito e sulla distruzione del materiale marinaresco.
Il senato di Cartagine voleva acconsentire, ma il popolo impedì che tale deliberazione fosse eseguita, e gli ambasciatori romani, che avevano recato questa intimazione a Cartagine, corsero pericolo della vita. Massinissa inviò a Roma suo figlio Gulussa per informare il senato del progresso dei preparativi di Cartagine per una guerra continentale e marittima e per sollecitare la dichiarazione di guerra.
Soltanto dopo un'altra ambasciata composta di dieci uomini il senato, avuta la conferma che Cartagine apparecchiava armi (602 = 152), respingendo l'immediata dichiarazione di guerra come voleva Catone, deliberò in seduta segreta, che si dovesse dichiarare la guerra se i Cartaginesi non intendessero di licenziare l'esercito e bruciare il materiale marinaresco. In questo frattempo la lotta in Africa era già cominciata. Massinissa aveva rimandato a Cartagine, scortati da suo figlio Gulussa, coloro che il governo cartaginese aveva bandito. Avendo i Cartaginesi chiuse ai medesimi le porte ed uccisi inoltre alcuni dei Numidi che facevan ritorno alle loro case, Massinissa fece fare dei movimenti alle sue truppe e altrettanto fecero i Cartaginesi.
Ma Asdrubale, che si era messo alla testa del loro esercito, era uno dei soliti distruttori d'eserciti che i Cartaginesi erano usi ad assumere come generali.
Pavoneggiandosi nel suo costume di porpora, come farebbe un re da teatro, e anche in campo volgendo le sue cure speciali al suo pomposo ventre, questo vanitoso e pigro personaggio era poco adatto a venire in soccorso d'una situazione, cui forse invano si sarebbe opposto lo spirito d'Amilcare stesso ed il braccio d'Annibale.
Sotto gli occhi di Scipione Emiliano – il quale essendo allora tribuno di guerra nell'esercito spagnolo era stato spedito a Massinissa per condurre al suo generale elefanti africani, e, che in questa occasione da un monte, «come Giove dall'Ida» osservava la battaglia che si combatteva tra Cartaginesi e Numidi – i Cartaginesi, benchè rinforzati da 6000 cavalieri numidi, loro condotti da capitani malcontenti di Massinissa, e benchè superiori in numero ai nemici, ebbero la peggio. Dopo questa sconfitta i Cartaginesi offrirono a Massinissa cessioni di territorio e pagamenti pecuniari e Scipione, sollecitato da loro, tentò di concludere un trattato ma inutilmente, avendo il partito patriottico rifiutato di consegnare i disertori. Asdrubale però, chiuso strettamente dalle truppe del suo avversario, si vide obbligato a concedere tuttociò che questi volle: la consegna dei disertori, il ritorno degli esiliati, la consegna delle armi, il passaggio sotto al giogo, un'annua contribuzione di 100 talenti (L. 627.500) per cinquanta anni: nè questo trattato fu dai Numidi mantenuto, chè gli inermi avanzi dell'esercito cartaginese, al loro ritorno in patria, furono da essi tagliati a pezzi.