SETTIMO CAPITOLO
LA RIBELLIONE DEI SUDDITI ITALICI E LA RIVOLUZIONE SULPICIA
1. Romani e Italici.
Dacchè colla vittoria riportata su Pirro si era conchiusa l'ultima guerra sostenuta dagli Italici per la loro indipendenza, il dominio romano era durato in Italia per quasi duecent'anni, non mai scosso nelle sue fondamenta, nemmeno nei tempi più pericolosi.
Invano l'eroica dinastia dei Barca, invano i successori del grande Alessandro e degli Achemenidi avevano tentato di eccitare la nazione italica ad insorgere contro la potente capitale; obbediente essa era accorsa sui campi di battaglia sulle sponde dei Guadalquivir e del Medscherda, nelle strette di Tempe e sul Sipilo spargendo il più prezioso sangue dei suoi figli per assoggettare tre parti del mondo ai suoi signori.
Ma le sue condizioni si erano mutate, e non a suo vantaggio. Quanto agli interessi materiali, in generale, veramente non aveva da lagnarsi. Sebbene per l'insana legge frumentaria romana i piccoli e i medi possidenti in tutta l'Italia fossero danneggiati, i grandi possidenti invece, e più ancora il ceto mercantile e quello dei capitalisti prosperavano, godendo gli Italici in sostanza, quanto alle rendite delle province, i medesimi vantaggi e la stessa protezione dei cittadini romani, e partecipando in gran parte anch'essi agli utili materiali della preponderanza politica romana.
Anzitutto le condizioni economiche e sociali d'Italia in generale non erano dipendenti dalle distinzioni politiche; vi erano poi province confederate, come l'Etruria e l'Umbria, nelle quali era scomparsa la libera classe dei lavoratori; altre, come le valli degli Abruzzi, nelle quali in parte s'era conservata, nè mancavano luoghi in cui durava quasi intatta; differenza che si incontra pure nei diversi distretti cittadini romani.
Ma quanto a politica le condizioni della nazione italica andavano sempre più peggiorando. È vero che nelle questioni principali non si venne ad un'aperta usurpazione. La libertà comunale, di cui i comuni italici godevano in forza di trattati, sotto il nome di sovranità, fu in generale rispettata dal governo romano; ai primi moti per la legge agraria il tentativo che fece il partito delle riforme in Roma d'impadronirsi dei beni demaniali romani, ch'erano stati ceduti ai comuni meglio situati, fu non solo seriamente combattuto dal partito romano rigidamente conservatore e moderato, ma ben presto abbandonato spontaneamente anche dalla stessa opposizione romana.