6. Ultima campagna del Sannio.
Mentre ciò avveniva nell'Etruria, le armi nel Sannio non riposavano.
La campagna del 443 = 311 si era limitata, come le precedenti, all'assedio e all'espugnazione di alcuni castelli sanniti, ma nel seguente anno la guerra si fece più viva. La pericolosa posizione di Rulliano nell'Etruria e le voci sparse d'una disfatta dell'esercito romano nel settentrione animarono i Sanniti a nuovi sforzi e il console romano Gaio Marcio Rutilo fu da essi vinto e gravemente ferito.
Ma il rapido cambiamento delle sorti in Etruria spense le rinascenti speranze.
Ricompariva Lucio Papirio Cursore alla testa delle legioni romane inviate contro i Sanniti, il quale fu ancora vincitore in una grande e decisiva battaglia (445 = 309), in cui i federati avevano impiegate le ultime loro forze. Il nerbo del loro esercito, che si componeva delle schiere dalle sopravvesti screziate e dagli scudi d'oro e di quelle dalle sopravvesti bianche e dagli scudi d'argento, fu distrutto in questa giornata e d'allora in poi le splendide armature sannitiche ornavano nelle grandi solennità le botteghe lungo il foro romano.
La miseria andava sempre più aumentando, sempre più venivano meno le speranze nella continuazione della lotta. Nell'anno seguente (446 = 308) gli Etruschi deposero le armi e, dopo essere contemporaneamente investita per mare e per terra, nel medesimo anno con favorevoli condizioni si diede ai Romani Nuceria, ultima città della Campania che tenesse ancora per i Sanniti.
Questi trovarono bensì negli Umbri dell'Italia settentrionale, nei Marsi e nei Peligni dell'Italia centrale nuovi alleati e persino gli Ernici accorsero numerosi spontaneamente sotto le loro insegne; ma ciò che avrebbe potuto essere di gran peso nella bilancia a danno di Roma se gli Etruschi fossero stati ancora in armi, non fece ora se non aumentare i successi dei Romani senza render la vittoria veramente più difficile.
Agli Umbri, che si apprestavano a correre su Roma, Rulliano sbarrò la via sul Tevere superiore coll'esercito destinato contro il Sannio senza che i fiaccati Sanniti lo potessero impedire, e questo bastò per disperdere la leva in massa degli Umbri.
Allora il nembo della guerra si scaricò di nuovo sull'Italia centrale. Furono vinti i Peligni e i Marsi, e benchè le altre schiatte sabelliche rimanessero, se non altro di nome, nemiche dei Romani, il Sannio si vedeva da quel lato a poco a poco effettivamente isolato.
Ma inaspettatamente venne ai Sanniti un aiuto dal territorio del Tevere.
La confederazione degli Ernici, chiamata a giustificarsi verso Roma del fatto che fra i prigionieri di guerra sannitici si trovassero militi ad essa appartenenti, dichiarò la guerra ai Romani (448 = 306), più per disperazione che per matura riflessione.
Alcuni dei più ragguardevoli comuni ernici si astennero sin da principio dal prendere parte alla guerra, ma la città di Anagnia, la più importante tra le erniche, corse senz'altro all'armi. Sotto il rispetto militare la posizione dei Romani era in quel momento, coll'insurrezione ernica alle spalle dell'esercito che trovavasi occupato nell'assedio delle fortezze sannitiche, sommamente difficile. Ancora una volta sorrise la fortuna delle armi ai Sanniti; Sora e Calazia vennero in poter loro. Ma gli Anagnini soggiacquero più presto che non lo si aspettasse alla forza delle milizie mandate contro loro da Roma, le quali, con questa opportunità, aprirono la via anche all'esercito che trovavasi nel Sannio. Tutto era perduto.
I Sanniti chiesero la pace, ma indarno; non v'era ancor modo di mettersi d'accordo. Solo colla campagna del 449 = 305 si giunse ad una decisione finale. I due eserciti consolari romani entrarono nel Sannio, l'uno capitanato da Tiberio Minucio e dopo la di lui morte da Marco Fulvio, partendo dalla Campania e passando attraverso i gioghi dei monti; l'altro condotto da Lucio Postumio venendo dal mare Adriatico, e rimontando il Tiferno per riunirsi a Boviano, capitale del Sannio.
Qui fu riportata una decisiva vittoria, fu fatto prigioniero il generale dei Sanniti Stazio Gellio ed espugnata Boviano.
La presa della principale piazza forte mise fine alla guerra che aveva durato ventidue anni. I Sanniti sgombrarono le città di Sora e di Arpinum e mandarono ambasciatori a Roma per chiedere la pace. Il loro esempio fu seguito dalle schiatte sabelliche dei Narsi, dei Marruccini, dei Peligni, dei Frentani, dei Vestini, dei Picenti.
Le condizioni concesse da Roma erano sopportabili; si chiesero bensì cessioni di territorio, come ad esempio dai Peligni, ma per quanto consta non furono di molto rilievo.
L'antica alleanza fu rinnovata fra gli stati sabellici ed i Romani (450 = 304).
Fu verosimilmente verso quello stesso tempo e quale conseguenza della pace sannitica che fu trattata la pace anche tra Roma e Taranto. Le due città, a dir vero, non erano uscite apertamente in campo l'una contro l'altra; i Tarentini si erano mantenuti dal principio alla fine della lunga lotta tra Romani e Sanniti passivi spettatori e avevano solo continuato la lotta in lega coi Salentini contro i Lucani confederati dei Romani.
Avevano bensì i Tarentini lasciato sospettare ancora una volta, negli ultimi anni della guerra sannitica, di volersi intromettere più concludentemente; ma da un lato la triste posizione, in cui i continui attacchi dei Lucani li avevano ridotti, e dall'altro la persuasione crescente, che il totale soggiogamento del Sannio minacciava anche la propria indipendenza, li aveva decisi, malgrado le tristi esperienze fatte con Alessandro, di affidare di nuovo la loro sorte ad un capitano di ventura.
Chiamato, venne il principe spartano Cleonimo con cinquemila mercenari, ai quali aggiunse una schiera di egual forza racimolata in Italia e aumentata fino a 22.000 uomini col contingente dei Messapi, delle piccole città greche e particolarmente coll'esercito dei cittadini Tarentini.
Con questo esercito egli costrinse i Lucani a far la pace con Taranto e ad istituire un governo devoto ai Sanniti, per cui certo fu loro fatto il sagrifizio di Metaponto.
Quando ciò avvenne i Sanniti erano ancora in armi; nulla impediva allo spartano di accorrere in loro aiuto e di mettere il suo esercito e la sua strategia a servizio della libertà dei popoli e delle città italiche. Ma Taranto non agì come in un caso simile avrebbe fatto Roma, e il principe Cleonimo non era nè un Alessandro, nè un Pirro.
Egli non s'affrettò a cominciare una guerra che prometteva più sconfitte che bottino, ma fece piuttosto causa comune coi Lucani contro Metaponto, città che predilegeva come residenza e di là accennò ad una spedizione contro Agatocle da Siracusa e alla liberazione dei Greci siciliani.
Allora i Sanniti fecero la pace e, quando libera da questa guerra, Roma cominciò a volgere più liberamente la sua attenzione al sud-est della penisola, allorchè per esempio nell'anno 447 = 307 una schiera di truppe romane sottoponeva a tributo il paese dei Salentini, o piuttosto vi faceva un'esplorazione, obbedendo ad ordini superiori, il condottiero spartano si imbarcò coi suoi mercenari e approdò di sorpresa all'isola di Corcira, eccellente posizione per esercitare la pirateria sia contro la Grecia, sia contro l'Italia.
Abbandonati in tal modo dal loro condottiero, e nello stesso tempo privi dei loro confederati nell'Italia centrale, non rimaneva ormai ai Tarentini ed ai loro alleati italici, i Lucani e i Salentini, che sollecitare un accordo con Roma, che sembra essere stato concesso a sopportabili condizioni.
Poco dopo (451 = 303) i Salentini coll'aiuto dei Romani respinsero un'irruzione di Cleonimo, che sbarcato sul territorio salentino aveva posto l'assedio ad Uria.