19. Capitolazione di Taranto.
L'anno seguente (545=209) i Romani ripresero l'investimento di Taranto, la seconda grande città che era passata dalla parte di Annibale.
Mentre Marco Marcello, con la solita sua tenacia ed energia, continuava la lotta contro Annibale stesso, e in una battaglia che durò due giorni, battuto nel primo, riportò nel secondo una difficile e sanguinosa vittoria; mentre il console Quinto Fulvio induceva i vacillanti Lucani ed Irpini a cambiare di parte e a consegnargli le guarnigioni cartaginesi; mentre ben guidate scorrerie partendo da Reggio obbligavano Annibale a correre in aiuto degli angustiati Bruzi, Quinto Fabio, console per la quinta volta, coll'incarico di riprendere Taranto, si era stabilito nel vicino territorio dei Messapi.
Una divisione di Bruzi della guarnigione gli aprì a tradimento le porte della città, della quale gli irritati vincitori fecero spaventevole strazio. Tutti quelli che capitarono loro nelle mani, fossero soldati o cittadini, vennero massacrati, le case saccheggiate. Si vuole che 30.000 Tarentini siano stati venduti schiavi, e che 3.000 talenti (circa 18 milioni e 300.000 lire) siano stati versati nel tesoro dello stato. Fu questo l'ultimo fatto d'armi del generale ormai ottuagenario; Annibale arrivò coll'intento di liberare la città quando tutto era finito, e quindi si ritrasse a Metaponto.
Dopo ch'egli ebbe così perduto a poco a poco le sue più ragguardevoli conquiste, e si vide ridotto alla punta sud-ovest della penisola, Marco Marcello, eletto console pel 546=208, d'accordo col valente suo collega Tito Quinzio Crispino, sperava di mettere fine alla guerra con un fatto decisivo. Al vecchio soldato non davano alcuna molestia i suoi anni; un sol pensiero lo occupava giorno e notte: quello di vincere Annibale e di liberare l'Italia. Ma il destino serbava quest'alloro ad una più giovane fronte.
In una ricognizione di poco rilievo i due consoli vennero sorpresi presso Venosa da una divisione di cavalleria africana. Marcello sostenne l'ineguale combattimento come aveva fatto quarant'anni prima contro Amilcare e quattordici anni addietro presso Clastidio, fino a che, moribondo, cadde da cavallo; Crispino si salvò, ma morì poi per ferite riportate nel combattimento (546=208).
La guerra durava da undici anni. Il pericolo, che alcuni anni prima aveva minacciato l'esistenza dello stato, sembrava svanito; ma tanto più forte sentivasi il peso della interminabile guerra, peso che tutti gli anni diveniva maggiore. Le finanze dello stato se ne risentivano fortemente.
Dopo la giornata di Canne (538=216) era stata nominata un'apposita commissione bancaria (tres viri mensarii), i cui membri erano stati scelti fra gli uomini più rispettabili, allo scopo di preporre alle pubbliche finanze, in quei difficili tempi, un'autorità superiore, stabile ed avveduta.
Essa avrà fatto tutto il possibile, ma le circostanze erano tali da sconcertare ogni mente finanziaria. Appena principiata la guerra era stato diminuito il valore intrinseco delle monete d'argento e di rame, aumentato d'oltre un terzo il corso legale del pezzo d'argento, e fu messa in circolazione una nuova moneta d'oro di molto inferiore al valore intrinseco del metallo.
Questa misura ben presto non bastò e si dovette ricorrere ai prestiti senza badare troppo per il sottile alle condizioni, perchè si era stretti dal bisogno, finchè le enormi frodi di coloro che fornivano il danaro, spinsero gli edili a dare un esempio con l'accusarne alcuni dei peggiori dinanzi al popolo.
Si fece spesso ricorso, e non indarno, al patriottismo dei facoltosi, i quali erano certamente quelli che in proporzione soffrivano più di tutti. I soldati appartenenti alle migliori classi, i sottufficiali ed i cavalieri rinunziarono al soldo, spontaneamente o costretti dallo spirito di corpo.
I proprietari degli schiavi, armati a spese del comune e fatti liberi dopo la battaglia di Benevento, dichiararono alla commissione bancaria, la quale ne aveva loro offerto il pagamento, che lo attenderebbero sino a guerra finita (540=214).
Allorchè le casse dello stato non poterono fornire il denaro necessario alle feste popolari od al restauro degli edifici pubblici, le società, che fino allora avevano avuto in appalto tali opere, si dichiararono pronte a continuare le loro prestazioni gratuitamente (540=214). E fu persino costruita ed equipaggiata una flotta mediante un prestito volontario fatto dai ricchi, appunto come nella prima guerra punica (544=210). Si consumarono persino i depositi pupillari; e finalmente, nell'anno dell'espugnazione di Taranto, si ricorse al fondo tenuto in riserva da lunghissimo tempo pei casi di estremo bisogno (circa L. 4.100.000). Ciò non pertanto le risorse dello stato non bastavano alle spese più necessarie; il pagamento del soldo alle truppe difettava in modo inquietante, particolarmente nei paesi lontani.
Ma le strettezze, in cui versava lo stato, non erano il lato peggiore delle sue infelici condizioni materiali.
Le campagne erano dappertutto abbandonate, ed anche dove non v'era stata la guerra si mancava di braccia che adoperassero la scure e la falce. Il prezzo delle granaglie era salito sino a 15 denari (L. 12,50) al medimmo (un moggio e mezzo), circa il triplo del prezzo medio che costava nella capitale, e molti sarebbero addirittura morti di fame se non fossero arrivate delle provvigioni di grano dall'Egitto, se innanzi tutto l'agricoltura, ritornata a fiorire in Sicilia, non avesse recato efficace rimedio all'estrema miseria. Quanto tali condizioni siano rovinose per le piccole tenute, quanto presto esse consumino quella poca scorta messa da parte con tanto sudore, come esse trasformino fiorenti villaggi in ricoveri di miserabili e di ladroni, lo provano guerre simili, di cui si sono conservati più precisi ragguagli.