4. Lingua.
Lo sviluppo linguistico di questo tempo si collega coll'antitesi tra il latino classico della colta società e la favella volgare del popolo. Quello fu un prodotto della cultura specifica in Italia; già nel circolo di Scipione il «puro latino» era stato un arguto epigramma e già la lingua madre non si parlava più con semplicità, ma con evidente differenza dalla lingua della moltitudine.
Quest'epoca s'apre con una notevole reazione contro il classicismo, il solo fino allora dominante nella più elevata conversazione e perciò anche nella letteratura, reazione che internamente ed esternamente trovava riscontro colla eguale reazione linguistica in Grecia.
Appunto in quel tempo il retore e romanziere Egesia da Magnesia e i molti retori e letterati dell'Asia minore che si strinsero a lui, cominciarono a ribellarsi contro l'ortodosso atticismo. Essi chiedevano la cittadinanza per la lingua viva, senza distinguere se la parola o la costruzione della frase erano state originate nell'Attica o nella Caria o nella Frigia; essi stessi non parlavano e non scrivevano pel gusto delle consorterie letterarie, ma per quello del gran pubblico.
Sulla massima non v'era nulla da dire; soltanto il risultato non poteva essere certo migliore di quello che era il pubblico dell'Asia minore d'allora, il quale aveva perduto interamente il senso per la forza e la purezza della produzione e correva dietro soltanto all'eleganza ed al brillante.
Per non parlare dei generi pseudo-artistici derivati da questa tendenza, specialmente del romanzo e delle storie romanzesche, lo stile di questi asiatici era, come si comprende, tagliuzzato e senza cadenza, il periodo stiracchiato e cedevole, orpellato e gonfio, del tutto comune e manierato. «Chi conosce Egesia – dice Cicerone – sa cosa sia scempiaggine».
Nondimeno questo nuovo stile trovò la via per insinuarsi anche nel mondo latino. Quando la rettorica ellenica divenuta di moda, dopo essersi insinuata alla fine della scorsa epoca nell'istruzione latina della gioventù, fece al principio della presente l'ultimo passo e con Quinto Ortensio (640-704 = 114-50), il celebre avvocato del tempo di Silla, salì la tribuna romana, allora essa si piegò strettamente anche nell'idioma latino al cattivo gusto greco dell'epoca; e non essendo più il pubblico romano quel pubblico puro e fortemente educato alla purezza ed alla austerità del tempi di Scipione, naturalmente applaudì con calore al novatore, che sapeva dare al volgarismo l'apparenza di andamento conforme all'arte.
Ciò fu di grave importanza. Come in Grecia le dispute linguistiche tenevano sempre il primo posto nelle scuole di retorica, così anche in Roma erano sempre di preferenza i discorsi legali coi loro volgarismi quelli che in certo modo, ancor più della letteratura, servivano di modello per lo stile, per cui col principato dei procuratori andava congiunta quasi di diritto la facoltà di dare il tono nel parlare e nello scrivere alla moda.
Il volgarismo asiatico di Ortensio respinse dunque il classicismo dalla tribuna romana e in parte anche dalla letteratura. Ma non andò molto che tanto in Roma quanto in Grecia la moda cambiò. In Grecia fu la scuola di Rodi quella che, senza riattingere alla vergine forza dello stile attico, si provò pure di battere una via di mezzo tra esso e la maniera moderna. Se i maestri rodioti si mostravano meno rigorosi quanto alla correttezza del pensiero e della parola, essi almeno insistevano sulla purezza della lingua e dello stile, sull'accurata scelta delle parole, sulla costruzione e sulla perfetta cadenza dei periodi.
In Italia fu Marco Tullio Cicerone (648-711 = 106-43) quello che, dopo aver seguìto nella sua prima gioventù la maniera d'Ortensio, uditi i maestri rodioti e maturato il proprio gusto, ricondotto su una via migliore, si attenne d'allora in poi ad una più severa purezza della lingua e a periodare e cadenzare il discorso.
Egli trovò i modelli di lingua a cui si conformò, anzitutto in quei circoli dell'alta società romana che poco o nulla avevano sofferto dal volgarismo; e di questi circoli, come abbiamo già osservato, ve n'era ancora un buon numero sebbene cominciassero a sparire.
L'antica letteratura latina e la buona letteratura greca, per quanto quest'ultima abbia così notevolmente agito specialmente sul ritmo del discorso, vi stavano però solo in seconda linea; questa depurazione della lingua non fu quindi assolutamente una reazione della classe veramente colta contro il gergo della falsa e pseudo-coltura.
Cesare, anche nel campo della lingua il più grande maestro dei suoi tempi, espresse il pensiero fondamentale del classicismo romano quando ordinò di evitare, tanto nel parlare quanto nello scrivere, una parola straniera appunto come il nocchiero evita gli scogli; si eliminarono tutte le parole poetiche e le parole trapassate della letteratura più antica, come anche le frasi del contado e quelle tolte alla lingua della vita comune, e specialmente le parole e le frasi greche, le quali, come lo provano le lettere di quel tempo, s'erano infiltrate in gran numero nella lingua parlata.
Ma ciononostante questo classicismo scolastico artificiale del tempo di Cicerone figurava di fronte al classicismo di Scipione come il peccato scontato di fronte all'innocenza, o in confronto della lingua francese modello di Molière e di Boileau, quella dei classici del tempo di Napoleone; se quello aveva attinto alla piena sorgente della lingua, questo raccolse ancora in tempo quasi gli ultimi aneliti di una generazione che andava irresistibilmente tramontando.
Il classicismo si sparse rapidamente tale e quale era. Insieme alla sovranità dell'avvocatura, anche la dittatura del buon gusto e della lingua passò da Ortensio a Cicerone, e la varia ed estesa opera letteraria di questi diede al classicismo ciò che ancora gli mancava, cioè diffusi testi di prosa.
Cicerone fu quindi il creatore della moderna prosa classica latina, e il classicismo romano lo riconobbe generalmente quale stilista: a Cicerone stilista, non a Cicerone letterato e meno ancora a Cicerone uomo di stato, erano diretti gli esuberanti ma non perfettamente fraseggiati panegirici, coi quali i più segnalati rappresentanti del classicismo, e specialmente Cesare e Catullo, lo ricolmarono.
Ben presto si andò più oltre. Quanto Cicerone fece per la prosa, altrettanto fece per la poesia verso la fine di quest'epoca la scuola neo-romana poetica, che si appoggiava sulla poesia greca di moda, di cui il più insigne talento era Catullo. Anche qui la lingua della società più elevata respinse le reminiscenze arcaiche, che sotto diversi rapporti dominavano ancora in questo campo, e come la prosa latina s'era adattata al sistema attico, la poesia latina si piegò a poco a poco alle severe, o, per dir meglio, penose regole geometriche degli alessandrini.
Così, ad esempio, da Catullo in poi non è più permesso d'incominciare un verso con una parola monosillaba o con una bisillaba che non sia di speciale importanza, e di chiuderne al tempo stesso uno incominciato nella proposizione antecedente.