15. La formazione di una nuova aristocrazia.
A proposito di questa magnifica eguaglianza repubblicana occorre notare che essa fu, più che altro, una eguaglianza di forme e quasi in tutto politica; e che sotto vi si trovava già un'aristocrazia sociale, che venne costituendosi in questi tempi, ma che fin dall'epoca antecedente preesisteva spiccatissima.
Già da gran tempo le casate ricche e notabili, non aggregate al patriziato, si erano divise dal popolo, e, ammesse a partecipare dei diritti senatori, venivano accostandosi ai vecchi nobili, seguendo una politica diversa e spesso contraria di quella a cui era portata la plebe. Le leggi licinie avevano soppressa ogni differenza gerarchica tra le due aristocrazie, ma quanto al vero popolano esso non aveva avuto altro effetto che quello di abolire il principio che escludeva di pieno diritto il plebeo dal partecipare al governo, lasciando sussistere ancora ostacoli difficilissimi se non impossibili a superarsi.
Ad ogni modo, per l'una e l'altra via, fu rinsanguato in Roma il ceto signorile, e il governo rimase essenzialmente aristocratico anche dopo le riforme, senza che perciò la repubblica cessasse di essere un vero comune d'agricoltori, in cui il ricco proprietario ben poco si differenziava nelle esteriorità sociali dal povero fittavolo, col quale egli parlava come ad un suo pari; e nondimeno l'aristocrazia era tanto saldamente in possesso dell'indirizzo sociale, che un uomo di scarsa fortuna poteva assai più agevolmente primeggiare in città che nel suo villaggio. Si vuol riconoscere provvidissima, e sommamente utile innovazione introdotta dalla riforma, per la quale anche il più povero cittadino poteva essere chiamato alla suprema magistratura; si deve però notare che queste elezioni d'uomini dell'ultima classe del popolo[3] non erano solo una rara eccezione, ma che esse possono riguardarsi, almeno rispetto ai tempi che chiudono questo periodo, non già come un portato naturale della costituzione, ma come la conseguenza d'una lotta e d'una opposizione.