11. Economia privata e rurale.
In quest'epoca nell'economia privata non si manifesta nulla che meriti di essere particolarmente rilevato; i vantaggi ed i danni delle condizioni sociali d'Italia, già descritte, non mutarono, ma ebbero solo maggiore e più preciso sviluppo.
Nell'economia rurale abbiamo già veduto come la crescente potenza dei capitali tanto in Italia quanto nelle province andasse a poco a poco assorbendo le tenute piccole e medie come il sole assorbe la rugiada.
Il governo non solo non se ne dava per inteso, ma andava anzi promovendo il pernicioso sminuzzamento dei terreni col mezzo di singole misure e anzitutto vietando la coltivazione delle viti e degli ulivi nel paese transalpino per favorire i grossi possidenti ed i negozianti Italici[5].
È bensì vero che tanto il partito dell'opposizione quanto la fazione dei conservatori, che si accostava alle idee di riforma, si sforzavano energicamente di porre un argine al male ognora crescente; i due Gracchi, con la suddivisione di quasi tutti i beni demaniali, procurarono allo stato 80.000 nuovi contadini italici; Silla, collo stabilimento di 120.000 coloni in Italia, riempì almeno in parte le lacune cagionate nella classe dei contadini dalla rivoluzione e da lui stesso; ma un recipiente che va continuamente perdendo l'acqua, non si ripara anche se lo si riempie abbondantemente; occorre invece un afflusso abbondante e perenne, ciò che a dir vero fu tentato di procurarsi in vari modi, ma sempre invano. Nelle province poi non si fece assolutamente nulla per salvare la classe rurale dagli speculatori romani che andavano acquistando le piccole tenute: i provinciali non erano che uomini e non formavano un partito.
Da ciò derivava che anche la rendita del suolo fuori d'Italia sempre più defluiva a Roma.
L'economia delle piantagioni, verso la metà di quest'epoca fattasi già preponderante in alcuni paesi d'Italia, come ad esempio nell'Etruria, era del resto salita in gran voga coll'impiego di abbondanti mezzi finanziarî congiunti ad un costante e ben inteso lavoro.
La produzione italica del vino, anzitutto, artificiosamente promossa in parte per la ordinata istituzione di mercati obbligati nelle province, in parte per la legge del 593 = 161 contro il lusso, che vietava l'introduzione di vini forestieri in Italia, ebbe un successo considerevole; i vini d'Aminea e di Falerno cominciarono ad avere rinomanza pari a quelli di Taso e di Chio, e del «vino opimo» del 633 = 121, l'Elfer romano, si mantenne la memoria ancora per molto tempo dopo che ne fu consumato l'ultimo boccale. Dell'industria e della manifattura diremo solo che la nazione italica si manteneva, per quanto si riferisce alle medesime, in uno stato d'inerzia che si avvicinava alla barbarie.